
Cosa Pensiamo
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Non siamo una professione. Non siamo una fede. Nemmeno siamo una scienza. Siamo una filosofia. “In realtà fra la religione e la vera scienza non esiste parentela, né amicizia e neanche inimicizia: esse vivono su pianeti diversi” (Friedrich Nietzsche, “Umano troppo umano”, 1878).
Attenzione, però, a non immaginare una nostra impostazione parolaia e verbosa, costituita da grandi discorsi e scarsa praticità. La nostra è una filosofia di vita. Perciò facciamo più di quanto pensiamo. E pensiamo a più cose di quelle in cui crediamo. Tuttavia, le cose in cui crediamo cerchiamo di metterle in pratica. Tutte. “Le tue azioni parlano così forte che non riesco a sentire quello che dici” (frase attribuita a Ralph Waldo Emerson).
“Feeling unknown, And you’re all alone, Flesh and bone, By the telephone, Lift up the receiver, I’ll make you a believer, Take second best, Put me to the test, Things on your chest, You need to confess” (Depeche Mode, “Personal Jesus”, 1989) ASCOLTA SU YOUTUBE.

Il rock è un modo di vivere. Ma è anche un modo di pensare. Quando si ha una certa mentalità, si tende ad agire in accordo con tale mentalità. Non di rado accade il contrario: si agisce istintivamente in un certo modo e, poi, si comincia a pensare in linea con le azioni eseguite. “Si sbaglia poco quando si attribuiscono le azioni estreme alla vanità, quelle mediocri all’abitudine e quelle meschine alla paura” (Friedrich Nietzsche, “Umano troppo umano”, 1878).
Il pensiero rock è fatto di scarti improvvisi, di paradossi e provocazioni. È un pensiero in perenne ebollizione, fatto per scuotere, stravolgere, mettere tutto in discussione. “‘Cause music is power, It’s easily sold, Rocking like a cradle, It won’t let you go“ (Richard Ashcroft, “Music is power“, 2006) – ASCOLTA SU YOUTUBE.
PRIMO PENSIERO
Il nostro pensiero numero uno? “Potremmo sbagliarci“. Da questa consapevolezza della fallibilità consegue una certezza: la certezza di poter sempre sbagliare (non quella di sbagliare sempre). Socrate dice “so di non sapere”. Insomma, il perspicace figlio dello scultore Sofronisco una sola cosa sa con grande certezza ed essa riguarda il più insuperabile limite umano: conosciamo le cose del mondo con la nostra mente fatta in un determinato, fallace e limitato modo. Quindi, una mente fatta diversamente vedrebbe le cose del mondo diversamente. Non c’è bisogno di pensare agli extraterrestri come esempi di possibili altri modi di vedere le cose: già gli animali (e qualche raro umano), su questo stesso nostro pianeta, vedono la realtà in modo alquanto differente da noi.

Il nostro pensiero numero due? “Crediamo in quanto sentiamo nel profondo”. In sintesi: sapendo noi, in generale, di poter sbagliare, soprattutto con la mente, siamo però sufficientemente convinti del nostro più intimo sentire. La formula è: coscienza della fallibilità (della mente) accompagnata dalla fiducia nel pensiero corretto , nel valore dell’esperienza, dell’intuito e dell’azione. Cosa pensiamo è meno importante dell’atteggiamento retto e della condotta.
Il nostro pensiero numero tre? “Siamo in buona fede, non abbiamo secondi fini e non ci facciamo troppe illusioni“.
Cosa pensiamo viene dopo autenticità e realismo. “There’s a meaning there, But the meaning there doesn’t really mean a thing, Come and see the real thing, Come and see the real thing, Come and see, I am the real thing” (Russell Morris, “The real thing”, 1969) – ASCOLTA SU YOUTUBE.
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APERTURA MENTALE
Il dubbio “potremmo sbagliarci” nasce non da insicurezza o timore, ma da una mente aperta alla critica di se stessa. Però aggiungiamo: come potremmo sbagliarci potremmo anche aver ragione (magari non con la mente, ma con l’ispirazione)! Il dubbio filosofico dovrebbe condurre fino al punto di dubitare pure del dubbio filosofico. Questa impostazione “implacabile” (vedi Socrate come tafano spietato) vale per le cose di ogni giorno e vale pure per le grandi domande: davvero esistono bene e male? cos’è la morte? esiste Dio? e cosa vorrebbe dire “esistere” nel caso di Dio?
Cosa noi pensiamo viene dopo lo scetticismo su tutte le risultanze del pensare.

Naturalmente, gran parte delle questioni derivanti da una mente spalancata (questioni come vita, morte, Dio) pare destinata a non trovare risposte definitive. Ciò a causa d’una conoscenza demandata a una mente troppo piccina e fatta in un certo modo (e non in un altro). Il rischio, quindi, è di spaccarci il cervello su temi assai alti, ma poco adatti a una testa rivolta soprattutto a utilità spicciole e immediate. Pertanto, lasciamo la mente spalancata. “Open your mind”, U.S.U.R.A., 1993 – ASCOLTA SU YOUTUBE. Oppure spegniamola per non dimenticare di vivere a fondo la nostra vita, sporcandoci le mani e mettendoci sempre in gioco quando e quanto necessario. “La vita consiste in rari momenti singoli di altissimo significato e in innumerevoli intervalli in cui nel miglior caso ci si aggirano intorno le ombre di quei momenti.” (Friedrich Nietzsche, “Umano troppo umano”, 1879 – 1879).
“Cosa pensiamo” deve sempre venire dopo “cosa facciamo”.
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DECENZA
La decenza è nel modo di porsi davanti a cose spesso troppo magnificate e rincorse. Nella canzone del 1953 “Money honey” di Clyde McPhatter & The Drifters ci sono questi versi: “Well, I learned my lesson and now I know / The sun may shine and the wind may blow / Women may come, and the women may go / But before I say I love ’em so / I want– money, honey! / Money, honey!” – ASCOLTA SU YOUTUBE. Traduciamo: “Bene, ho imparato la mia lezione e ora so / Il sole può brillare e il vento può soffiare / Le donne possono arrivare e le donne possono andare / Ma prima di dire che le amo così / Io voglio soldi, tesoro! / Soldi, tesoro!”.

I versi della canzone glorificano il denaro, e non c’è da stupirsi. Infatti, non ce ne stupiamo. In nome dei soldi l’umanità arriva a ben altre “glorificazioni”, compiendo indicibili violenze (la canzone del gruppo musicale statunitense, invece, è pure simpatica). Detto questo, non è nemmeno il caso di bruciare mucchi di banconote in clamorosi falò di ingenuo idealismo. Semplicemente, per noi, la moneta resta un mezzo di scambio (uso relativo) e non la trasformiamo in un fine in sé (uso assoluto di elevatissima pericolosità).
Cosa noi pensiamo della ricchezza è facile desumerlo dal nostro non attaccamento al denaro.
Stesso discorso per tutte le altre invenzioni umane su cui la gente si accapiglia, si vende l’anima e si ammazza (invenzioni davvero assurde come gioielli e conti bancari). “L’usuraio distruggerà ogni ordine sociale, ogni decenza, ogni bellezza” (Ezra Pound).
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CONCRETEZZA
La popolarità è un altro “asset” su cui sbavano le moltitudini. Si fa di tutto per apparire. Non importa cosa si fa quando si appare. Purché si appaia. Vanno bene anche boccacce, moine o scherzi idioti. Vanno bene anche frasi fatte, vuote, sgrammaticate. Il culto dell’apparenza ha devastato altre più solide ambizioni. Come l’ambizione a essere preparati, competenti, affidabili.

Esiste un annoso dualismo fra “essere” e “avere”. La seconda condizione risulta quasi sempre vincitrice assoluta. Poi c’è un dualismo fra “essere” e “apparire”. E persino un ulteriore dualismo fra “avere” e “apparire”. Sempre si afferma, fra i due termini in opposizione, quello vacuo, fittizio, ingannevole. Noi rispondiamo a tutto ciò con una paziente salvaguardia della concretezza. Scegliamo l’altro termine (quello perdente in società). E lasciamo le luci di scena a chi le ama così tanto da arrivare fino a bruciarsi faccia e capelli. “The look”, Roxette, 1989 – ASCOLTA SU YOUTUBE.
Cosa pensiamo della fama è facile capirlo dalla nostra indifferenza verso ogni sterile apparenza.
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SELF-CONTROL
Parliamo ora delle ambizioni di potere. Per una posizione di preminenza nel “consesso civile” si è disposti a rinnegare amici, famiglia, valori, dignità, tutto. Ci si aggrappa a un grado, a un titolo, a una qualifica. Come se il proprio valore dipendesse dalle parole altisonanti stampate sul biglietto da visita o sulla porta dell’ufficio. Questa triste ossessione resta immutata anche quando si potrebbe facilmente fare un passetto indietro (senza rinunciare a tutto). Anzi, succede pure quando il passetto da accettare è solo “di lato”.

Sconcerta il prezzo (anche decisamente elevato) da tutti pagabile in cambio di risibili scampoli di potere. Costi alti in termini di energie, compromissione delle amicizie, investimenti economici, rinunce a una vita vera. Altro motivo di stupefazione (nostro) è il contenuto del potere in gioco. Si è pronti a scatenare un pandemonio per poltroncine di basso rango, per supremazie da instaurare su insulse combriccole, per briciole di influenze inutili, spesso apparenti e talvolta ingannevoli. Rispondiamo a questo andazzo cercando di mantenere un semplice (e divertito) autocontrollo filosofico. “Molto potente è chi ha se stesso in proprio potere” (Lucio Anneo Seneca).
Cosa pensiamo del potere lo si comprende dal nostro inesausto sospetto e dall’inevitabile allergia (alle sciocchezze).
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SOBRIETÀ
Agi in eccesso conducono a pigrizie e indolenzimenti. Quindi, occorre stare attenti alle troppe comodità con cui ci si approssima a insidiosi offuscamenti mentali e intorpidimenti sensoriali. Questo, però, non vuol dire obbligarsi a sgobbare dalla mattina alla sera. Non vuol dire vestirsi di stracci, mangiare pane e cipolla o dormire per terra. Insomma, non dovrebbe esser difficile evitare rammollimenti scansando altresì posture rinunciatarie e devitalizzanti. Eppure, da secoli, conosciamo l’invincibile tentazione umana a rifuggire gli infiacchimenti cascando in posture sacrificali e autoflagellanti, senza mai applicare la prescrizione “in medio stat virtus” grandemente apprezzata da Aristotele e poi ripresa dalla scolastica medievale. A noi la medietà piace poco. Qualche eccesso ci vuole. Osare è vita. Ma azzardare sempre trasforma il rischio in regola negandone il vigore.
Cosa pensiamo della sobrietà lo si ricava dalla nostra morigerata ricerca del giusto mezzo. “Half the people read the papers, Read them good and well, Pretty people nervous people, People have got to sell, News you have to sell” (Tanita Tikaram, “Twist in my sobriety”, 1988) – ASCOLTA SU YOUTUBE.

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RISPETTO
“Rispetto”, parola di imponente levatura morale: esprime un concetto a cui teniamo molto. Il primo campo di applicazione del “rispetto” dovrebbe riguardare la propria sfera più personale e intima. Insomma, bisognerebbe rispettare sé stessi, tanto per cominciare. Il rispetto per sé stessi lo si attua in molti modi. Rispettando la propria appartenenza all’ordine naturale, possibilmente evitando abusi sul proprio corpo e alienazioni della propria mente. Lo si attua pure rispettando la propria virtù originaria, non dissipando una vocazione innata, sia essa artistica, scientifica, sportiva, ecc. Poi rispettando i propri affaticamenti, indebolimenti e stati di malattia, concedendosi riposi, diversivi, pause, vacanze.

Naturalmente, c’è pure il rispetto per gli altri, per gli animali, per la natura, per gli elementi del mondo, per il fluire del destino, per l’ordine delle cose, per la dimensione spirituale, per il creato, per l’inconoscibile, per l’ineffabile. E per la morte. “Respect is what I want, Respect is what I need, Respect is what I want, Respect is what I need” (Aretha Franklin, “Respect”, 1967) – ASCOLTA SU YOUTUBE.
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LIBERTÀ
L’idea di libertà è stata a dir poco brutalizzata, confondendola con l’anarchia e con la malsana pretesa di esercitare una libertà incondizionata, a tutto campo. Invece, la libertà è da maneggiare con delicatezza, in un meccanismo di equilibri e contrappesi. Per fare il più classico degli esempi, se io sono libero di calpestare gli altri, oltre a rendermi responsabile di un’ingiustizia (verso i calpestati), scateno la medesima libertà altrui (soprattutto dei calpestati e di chiunque altro vorrebbe, a sua volta, calpestare il prossimo). Il risultato è una escalation di violenza e soprusi. Alla fine di questo percorso c’è il caos e la legge della giungla, non la libertà. “Nel mondo attuale per libertà s’intende la licenza, mentre la vera libertà consiste in un calmo dominio di se stessi. La licenza conduce soltanto alla schiavitù” (Fëdor Dostoevskij).

La libertà deve essere soggetta a regole precise (non può essere assoluta, indiscriminata) e queste regole dovrebbero essere davvero rigorose. Quando non rispettate, le medesime regole dovrebbero dar luogo a sanzioni severe. In assenza di tutto ciò, si afferma un falso concetto di libertà a paravento della legge del più forte. “Seeming to be the chimes of freedom flashing, Flashing for the warriors whose strength is not to fight” (Bob Dylan, “Chimes of freedom”, 1964) – ASCOLTA SU YOUTUBE.
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SPIRITUALITÀ
Sgombriamo subito il campo dall’ambigua mescolanza fra religione e spiritualità. Precisazione indispensabile perché la spiritualità è qui intesa in modo preciso. Essa concerne l’intera dimensione umana collocata altrove rispetto alla mente imprigionata dalla sistematicità. Sintetizzando molto: la spiritualità è una istanza costituita da istinti, sentimenti, affetti, intuizioni e modi di sentire/valutare costitutivamente diversi dalla logica, dal calcolo, dalla deduzione.

La spiritualità è un approccio alla realtà fatto di compenetrazione, empatia, accordo primordiale. È quel modo di stare al mondo progressivamente accantonato dall’umanità a favore del raziocinio, della convenienza, della tecnica, della manipolazione delle entità materiali. Pertanto, uno dei modi per riappropriarsi della sfera spirituale comporta lo spegnimento (o perlomeno l’attutimento) della mente discorsiva, da ottenere magari tramite meditazioni appropriate e la recitazione di formule ripetitive (mantra, preghiere). “Ci sono solo due modi di vivere la propria vita: uno come se niente fosse un miracolo; l’altro come se tutto fosse un miracolo” (Albert Einstein).
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RETTITUDINE
“Rettitudine”: altro termine (e altro concetto) di enorme portata per la nostra filosofia. Anche in questo caso, trattandosi di una “filosofia di vita” (filosofia per la vita), si tratta di mettere in gioco questioni pratiche, riguardanti effettivi comportamenti umani (non paroloni e proclami teorici). Attenzione: noi abbiamo anche le nostre convinzioni “metafisiche”, ma sempre con risvolti concreti. Quindi, rettitudine non può solo essere una bella parola. Deve corrispondere a fatti.

Si è retti quando si fanno le cose secondo giustizia. Per esempio, quando si rinuncia a un facile vantaggio preferendo agire in modo onesto. Rettitudine è restituire al suo proprietario un portafoglio gonfio di banconote trovato per strada. Oppure, rettitudine è non favorire – da componenti di una giuria – un concorrente (anche se meritevole) il quale ci promette denaro o altre convenienze. Peraltro, rettitudine non è nozione combaciante interamente con onestà, perciò è rettitudine anche levarsi un cappotto, quando fa molto freddo, per darlo a una persona bisognosa. “I’m in too deep, Can’t swim like me, We’re drowning so I will see, My demons ten feet under me” (Juice Wrld, “Righteous”, 2020) – ASCOLTA SU YOUTUBE.
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SAGGEZZA
La saggezza è sia un punto di arrivo della nostra filosofia sia un quotidiano strumento da usare nella vita ordinaria. Come punto d’arrivo, la saggezza è il sommo di tutte le esperienze accumulate (un osservatorio olimpico).

In quanto attrezzo da lavoro filosofico, la saggezza si declina come forza dell’esperienza e non stantia assennatezza; come saviezza conquistata sbagliando e non neutro senno; come sensatezza basata su istanze primordiali e non scialbo buon senso; come discernimento ottenuto sudando e non timorosa accortezza; come avvedutezza dovuta a completezza di visione e non timida oculatezza; come giudizio convinto e non pilatesca ponderatezza; come criterio articolato e non prudenza rinunciataria; come equilibrio fondato su gambe solide e non teoretico raziocinio. Ognuno di questi atteggiamenti ha una sfumatura diversa dagli altri e si applica a una specifica serie di situazioni. “Accusare gli altri delle proprie disgrazie è conseguenza della nostra ignoranza; accusare se stessi significa cominciare a capire; non accusare né sé, né gli altri, questa è vera saggezza” (Epitteto).
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UMILTÀ
Mai confondere l’umiltà con atteggiamenti di sottomissione, di mortificazione o di recezione supina di eventuali aggressioni (fisiche o morali) da parte altrui. Umiltà vuol dire – come negli animali dei monti e delle praterie – riconoscere la propria piccola parte nel contesto universale. Umiltà vuol dire accettare la propria insufficienza ma con fierezza.

Umiltà significa restare sempre con i piedi per terra, consci dei limiti della nostra natura. Umiltà, dunque, coincide con concretezza, senso delle proporzioni e sguardo a 360 gradi. D’altro canto, si è umili anche rivendicando il proprio diritto a vivere filosoficamente, cioè non aderendo a superficiali conformismi, a ipocrisie di maniera e a sterili finzioni. “Siamo tutti apprendisti in un mestiere dove non si diventa mai maestri” (Ernest Hemingway).
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